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13 novembre 2015

Repubblica :Energia, la svolta verde dei Big: "Il clima, un affare miliardario"

Interessante articolo che pubblichiamo in forma integrale.

Tratto da Repubblica.it

Energia, la svolta verde dei Big: "Il clima, un affare miliardario"


Alla vigilia della Conferenza di Parigi, si intensificano analisi, studi e report in favore di impegni degli Stati sul riscaldamento globale. Intanto i rating iniziano a penalizzare i titoli del petrolio e del carbone


MILANO - C'è chi sostiene che a Parigi, al vertice sul cambiamento climatico che inizia a fine novembre, non si verrà a capo di niente. Perché le grandi potenze, a cominciare da Cina e Stati Uniti, hanno preso soltanto impegni di facciata. E anche nei casi in cui è stato garantito che dimezzeranno le emissioni di Co2 nei prossimi vent'anni, in realtà i Grandi delle terra sanno benissimo che si tratta di "assicurazioni" e non di impegni vincolanti.
Eppure un accordo serve assolutamente perché non affrontare il nodo dei cambiamenti climatici mette a rischio non solo l'ambiente ma anche l'economia: può diventare il fattore scatenante di una recessione senza precedenti a livello globale
In buona sostanza, dove non sono riusciti gli scienziati potranno gli economisti, ma soprattutto gli interessi economici. Perché, detto in maniera molto brutale, c'è da guadagnarci molto di più nella lotta alle emissioni di CO2 che non a inquinare con poche regole e in assenza di limiti.

Un cambio di paradigma destinato non solo a rivoluzionare, nei prossimi decenni, il destino di tutta l'industria energetica mondiale, ma allo stesso tempo a creare milioni di nuovi occupati. Detto in altri termini: se anche dal vertice di Parigi uscisse un nulla di fatto, la lotta al cambiamento climatico ha già vinto la sua battaglia. Per una semplice questione di convenienza. 
Lo si può intuire dall'avvertimento lanciato da Nicholas Stern, ex capo economista della Banca Mondiale, non proprio un centro di pericolosi antagonisti: "Il cambiamento climatico minaccia una recessione che cancellerebbe il 20% del Pil mondiale, mentre al contrario la lotta per contenere la crescita delle temperature media attorno a 2 gradi porterebbe a una crescita del Pil globale dell'1% all'anno".

Da rischio sistemico, quindi, il cambiamento climatico deve diventare una opportunità: ne sono convinti anche i vertici dell'Organizzazione mondiale del Lavoro (Ilo) che proprio dagli uffici di Parigi hanno reso pubblico uno studio secondo cui "la transizione verso una economia decarbonizzata potrebbe portare alla creazione fra 15 e 60 milioni di nuovi posti di lavoro, oltre a ridurre la povertà e le ineguaglianze sociali". Numeri che trovano un primo fondamento nella marcia inarrestabile delle rinnovabili: secondo i dati del 2014, le energie verdi hanno coperto il 23% del fabbisogno di energia mondiale, con gli investimenti che soltanto nell'ultimo anno sono arrivati a 235 miliardi di dollari. Sempre secondo gli esperti dell'Ilo, le rinnovabili impiegano in questo momento 5 milioni di persone, ma se adeguatamente sostenute potrebbero far crescere l'occupazione del settore con una media del 21% all'anno. Una stima, tutto sommato prudente, se confrontata ai numeri ancora più significativi appena presentati da Greenpeace: secondo l'associazione ambientalista, se i Grandi si ponessero l'obiettivo di produrre energia soltanto da fonti rinnovabili entro il 2050, questo significherebbe un costo complessivo di 1.000 miliardi di dollari all'anno. In ogni caso, inferiore alla spesa per ottenere annualmente la stessa quantità di energia da fonti fossili che è pari a 1.070 miliardi. Senza contare i minori costi sociali per il mancato inquinamento.

Non solo: le rinnovabili creerebbero più posti di lavoro di quanti ne garantiscono oggi le fonti fossili. Già al 2030, gli occupati nel settore del solare potrebbero essere 9,7 milioni, dieci volte il dato odierno. Ma per accelerare la transizione occorre che da Cop21, dove si ritroveranno 147 capi di stato o di governo, escano scelte politiche precise che "impongano prezzi espliciti alle emissioni di CO2". In buona sostanza, essere responsabili del cambiamento climatico deve avere un costo.

A chiederlo non sono stati scienziati che possono essere tacciati di catastrofismo, ma 43 amministratori delegati di altrettante multinazionali, presenti in 150 paesi con un fatturato complessivo pari a 1.200 miliardi di dollari, rappresentativi di 20 settori economici e industriali, i quali hanno avanzato la loro proposta con una lettera indirizzata al segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon. Potrebbe sembrare un controsenso, ma tra i 43 firmatari ci sono anche i capi-azienda di gruppi dell'energia come la spagnola Iberdrola, la francese Engie (l'ex Suez-Gaz de France) e l'italiana Enel. Tre gruppi che potrebbero finire sul banco degli accusati per eccesso di inquinamento, visto il largo uso di carbone per la produzione di energia nelle loro centrali. Ma è una dipendenza da cui hanno deciso di uscire anticipando i tempi, puntando sulle rinnovabili (connesse a sistemi di accumulo) e sul gas.
Una dichiarazione di intenti che suona come campana a morto per il carbone, il combustibile che ancora oggi copre quasi la metà della produzione di elettricità a livello mondiale ed è responsabile del 23% del totale delle emissioni globali. Con la Cina che ne è in assoluto il primo consumatore, grazie al quale copre il 65% del suo fabbisogno di energia.
Ma tra le lobby dell'energia è in corso una guerra per la quale vale il motto latino mors tua vita mea. Come si intuisce da un altro documento sottoscritto questa volta da cinque grandi compagnie europee leader del settore oil&gas.
Shell, Statoil, Bg, Bp ed Eni hanno recapitato una lettera al ministro degli Esteri francese Laurent Fabius con la quale si impegnano a "porre le basi per un futuro in cui gas e rinnovabili abbiano un ruolo trainante ". Significativo il fatto che la lettera non sia appoggiata dalle grandi oil company americane. Ma non stupisce più di tanto dopo la notizia dell'inchiesta aperta dalla procura generale di New York, la quale sospetta che ExxonMobil abbia nascosto nei bilanci le conseguenze finanziarie di una limitazione, nel corso dei prossimi anni, dell'utilizzo di combustibili fossili.

Del resto, anche la grande finanza sembra aver sposato la causa degli ambientalisti abbandonando i petrolieri al loro destino minoritario. A cominciare dal fondo sovrano della Norvegia, il più grande nel suo genere al mondo con oltre 960 miliardi di dollari in gestione: da sempre impegnato sul fronte etico, ha deciso che dal 2016 venderà tutte le sue partecipazioni in società che producono più del 30% del loro fatturato da attività legate al carbone. Posizioni analoghe sono state annunciate anche dal board di Bank of America, che ha deciso di "voler ridurre, nel tempo, l'esposizione creditizia nei confronti delle miniere di carbone". Mentre i finanziamenti al settore sono stati addirittura sospesi da Wells Fargo, Jp Morgan e Credit Agricole.

Il tema è al centro dei "brain storming" di tutti i grandi investitori internazionali. Perché sottovalutare l'impatto delle politiche per il contenimento del cambiamento climatico potrebbe produrre gravi perdite finanziarie. E' il senso di un corposo studio di BlackRock, il più grande fondo di investimento del mondo con i suoi 4.300 miliardi di patrimonio gestito. Nel report si sottolinea come il cambiamento climatico sia ormai una variante con la quale individuare gli investimenti più redditizi, dove "ci saranno vincitori e vinti" sia tra le grandi nazioni che tra le società, in base alle scelte che verranno compiute nei prossimi anni. Non è detto per esempio che Cina e India, al momento tra i maggiori responsabili delle emissioni di CO2 siano tra gli sconfitti. Anzi, sono nazioni su cui scommettere. Perché la Cina aumenterà gli investimenti in rinnovabili (che già oggi coprono il 29% del totale mondiale) per compensare l'uso eccessivo del carbone. Mentre l'India dovrà spendere per migliorare la qualità della vita delle sue metropoli: sono indiane 15 delle 30 città più inquinate del mondo.

In altre parole, la lotta al cambiamento climatico si imporrà perché la grande finanza è convinta che sia una scelta vincente sul piano economico? "Diciamo che non sarà merito di quanto avverrà a Parigi, dove saranno prese decisioni di facciata", è la tesi di Matteo Verda docente all'Università di Pavia e ricercatore associato dell'Ispi per i temi dell'energia. "Dove sono stati fatti passi avanti verso la riduzione della CO2 è dipeso dal sottostante tecnologico. Come negli Usa, dove si sta abbandonando il carbone grazie al successo dello shale gas". 
In altre parole, il progresso tecnologico ha deciso la strada da intraprendere più degli Stati.

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