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18 giugno 2019

Terre di frontiera:L’intermittenza mediatica uccide

Tratto da  Terre di frontiera 

L’intermittenza mediatica uccide

 Leggere il uinto rapporto Sentieri – lo Studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento, promosso e finanziato dal ministero della Salute – comporta un’assunzione collettiva di responsabilità. A giocare un ruolo determinante nella conoscenza delle cause e dei rischi per la salute delle comunità è l’informazione. Che deve mettere in campo gli strumenti giusti per la comprensione, pesando i numeri – che in molte situazioni rappresentano veri e propri macigni – e non semplicemente dare i numeri. O accendere e spegnere i riflettori rispondendo esclusivamente a logiche commerciali. L’intermittenza mediatica uccide al pari dell’inquinamento ambientale. Si muore più lentamente e dolorosamente nel silenzio.
Allo stesso modo, gli organi preposti al controllo, chi legifera, chi concede nuove autorizzazioni e proroghe ad impianti che impattano le matrici acqua, aria e suoli, questi numeri dovrebbe studiarli.
Assistiamo, invece, ad una sorta di criminalizzazione di chi sorveglia e vive in territori di frontiera, all’ombra di aziende chimiche, stabilimenti siderurgici, petrolchimici, raffinerie e centrali elettriche. Solo per citare quegli impianti che un territorio oltre ad occuparlo lo alterano nei lineamenti vitali deturpandone l’aspetto e sovvertendone le regole.
Ed è proprio il rapporto Sentieri ad evidenziarne la causa, la mano. «Gli eccessi tumorali si osservano prevalentemente nei siti con presenza di impianti chimici, petrolchimici e raffinerie, e nelle aree nelle quali vengono abbandonati rifiuti pericolosi.»
In evidenza l’eccesso «di patologie in territori caratterizzati dalla presenza nell’ambiente di fonti di esposizione ambientale potenzialmente associate in termini eziologici alle entità patologiche studiate.»
Quanto basta per tracciare su di una mappa i confini di trecentodiciannove comuni italiani che, oggi, ospitano quasi sei milioni di abitanti, distribuiti in quarantacinque Siti d’interesse nazionale nel periodo di riferimento oggetto di studio, che arriva fino al 2016.
L’Istituzione superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), su dati aggiornati al 2018, ne classifica invece quarantuno, per una superficie a terra pari ad oltre 170 mila ettari: «lo 0,57% della superficie del territorio italiano.»
Una mappa, sì reale, tangibile, ma incompleta, perché all’appello mancano molte aree del nostro Paese non perimetrate, non studiate, non conosciute. Una disomogeneità che pare limite insuperabile come la mancanza o la frammentarietà delle informazioni a disposizione di chi indaga: l’assenza di una procedura uniforme per caratterizzare ciascun sito da un punto di vista ambientale; la non capillarità dei Registri tumori regionali; l’insieme di banche dati non interconnesse tra loro; l’assenza di un sistema di studio e di controllo centralizzato; la quasi totale censura di indagini igienico-ambientali; la presenza di studi epidemiologi finanziati a terzi da chi inquina, in molti casi gli unici ad essere presenti.
A nord, a sud e a pochi chilometri da Taranto, a Milazzo, a Gela, in Basilicata, in Sardegna, a Pioltello, a Broni, in Trentino, ad Emarese cosa accade ad uomini, donne e bambini? 

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