E’ scontro.
Il commissario dell’Ilva Enrico Bondi e il Garante dell’Ilva Vitaliano Esposito si sfidano a duello.
Il primo è un manager, il secondo è un magistrato.
Il nodo della contesa è la validità della diffida ministeriale del 14 giugno con la quale l’Ilva viene ufficialmente “accusata” di violare ripetutamente le prescrizioni dell’Aia (Autorizzazione Integrata Ambientale) e quindi dichiarata passibile di sanzioni.
Ispra (l’organismo ministeriale di controllo ambientale centrale) il 16 luglio aveva motivato ufficialmente la richiesta di sanzionare l’Ilva incaricando il Prefetto di eseguire la sanzione stessa (può arrivare fino al 10% del fatturato dell’Ilva).
Lunghissimo l’elenco delle violazioni dell’Aia evidenziate dall’Ispra.
E allora che succede di fronte alla procedura di sanzione messa in moto da Ispra?
Il giorno dopo (17 luglio) interviene Bondi per stoppare tutto
dichiarando decaduta la diffida dopo il cosiddetto decreto
Salva-Ilva-bis. Nella conversione in legge del decreto (il testo è ora
passato dalla Camera all’esame del Senato) si mira esplicitamente
a rendere malleabile l’Aia
per evitare che essa – da strumento salvifico per l’azienda al fine di
evitare il sequestro senza facoltà d’uso degli impianti da parte della
magistratura – divenga il cappio al collo per l’Ilva.
E così ormai è chiaro che si prospetta la soluzione all’italiana per cui quando una legge non viene rispettata viene cambiata, specie se non viene rispettata da chi è molto potente.
Il 18 luglio è intervenuto il garante per contestare Bondi e confermare la diffida/sanzione: il garante spiega in sostanza a Bondi che l’Ilva non può sottrarsi alla sanzione finché l’Aia non viene cambiata. La nuova legge lo consentirebbe ma non è stato ancora attivato il “grimaldello” in essa contenuto per “ammorbidire” l’AIA con deroghe e proroghe varie.
Riassumendo:
le prescrizioni e le tempistiche dell’Aia sarebbero per Bondi un
ricordo del passato, ma per Vitaliano Esposito (Garante dell’Aia Ilva)
sono ancora in vigore. E quindi la diffida ministariale va confermata
rispettata.
Ed è questa la vera ragione per cui stanno
affrettandosi a convertire in legge il decreto 61/2013, vera e propria
ciambella di salvataggio per Ilva tramite le norme che consentono l’“ammorbidimento” di quell’AIA che era stata “cristallizzata” con la legge 231/12, la quale avrebbe dovuto garantirne l’attuazione a tutti i costi: dura lex sed lex.
Ma così non è stato: l’Aia è rimasta in gran parte lettera morta.
Quell’Aia era l’ultima trincea – secondo la Corte Costituzionale – in quanto rappresentava un punto di equilibrio
fra diritti costituzionalmente tutelati, un equilibrio da non rompere
per evitare uno squilibrio a danno del diritto alla salute e alla vita.
Il
garante nella sua lettera del 18 luglio al Governo parla di ”violazioni
che impongono una reazione dell’ordinamento all’inosservanza di
disposizioni posta a salvaguardia della vita per il
tramite della tutela dell’ambiente e della salute”.
E conclude con un
appello alla responsabilità in cui evidenzia come si aggravi “la
posizione di esposizione del nostro Paese nei confronti della Comunità internazionale (con conseguenze anche economiche inimmaginabili)”.
La Commissione Europea ha già alzato le antenne da un pezzo.
Ha parlato di “diritto alla vita”. In ballo c’è la violazione di ben quattro articoli della Carta dei diritti fondamenti dell’Unione europea che ha valore giuridicamente vincolante per gli stati membri.
Che Bondi vada rimosso quanto prima è cosa ormai superflua da spiegare.
Pd e Pdl lo salveranno, ma è indifendibile.
Molto più difficile è invece capire come mai i parlamentari di tutti gli schieramenti abbiano deciso di abolire il garante dell’Aia.
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