Tratto da QualEnergia
Carbone Usa, una guerra che si vince dal basso
Negli Stati Uniti il movimento contro il carbone sta registrando diverse
vittorie: 151 centrali sono state bloccate. Anche il mercato rimette in
discussione questa opzione dannosa per l'ambiente. L'uscita dal carbone
diventa uno scenario realistico, grazie alle pressioni popolari e alla
spinta delle energie rinnovabili.
Per l'ambientalismo americano è il carbone il nemico numero uno.
Basta un numero per rendersene conto: 250, sono le associazioni
statunitensi impegnate nella guerra al carbone. Una fonte fossile che
non piace perché responsabile di un inquinamento atmosferico che crea
enormi danni alla salute, senza portare alcun beneficio alla società:
secondo la ricerca Environmental Accounting for Pollution in the United States Economy,
pubblicata sull'American Economic Review, per ogni dollaro di valore
aggiunto generato dall'industria del carbone, ci sono 2,2 dollari di
danno esterno. Una volta internalizzati i costi della sanità, alla
società non conviene produrre energia dal carbone.
Gli
scienziati di tutto il mondo, inoltre, additano il carbone come causa
dei cambiamenti climatici, risorsa energetica del passato, ad altissimo
contenuto di CO2.

La società americana sembra
convinta della necessità di combattere questa battaglia. Le azioni di
disobbedienza civile si moltiplicano e tante sono le vittorie.
Ted Naceè il coordiantore
![]() |
This article is part of the Coal Issues portal on SourceWatch, a project of CoalSwarm and the Center for Media and Democracy. See here for help on adding material to CoalSwarm |
del sito web Coal swarm con
cui, dal 2007, segue lo stato di avanzamento di tutti i progetti di
centrali in attesa di autorizzazione. Nel 2008, in collaborazione con il
Center for media and democracy, Nace ha avviato il CoalSwarmWiki,
una sorta di Wikipedia delle lotte al carbone, dove si possono
consultare 3.500 articoli con tutte le informazioni sullo sfruttamento
di questa fonte e sulla mobilitazione a livello globale.
“Dai
numeri è chiaro che stiamo vincendo: sono 230 le centrali di cui è in
programma la chiusura – dice Nace – Anche se a Washington non siamo
riusciti a portare a casa quasi nessun risultato, la pressione
ambientalista sta condizionando l'industria”.
Per
trovare un movimento ecologista altrettanto forte e strutturato bisogna
andare indietro fino alle lotte contro il nucleare degli anni ‘70 e
’80, che riuscirono a far cancellare 100 progetti negli Usa. La guerra
al carbone sta andando anche meglio: secondo
l’associazione
ambientalista Sierra Club, che, come parte della campagna Stopping the coal rush,
raccoglie in un database informazioni sul settore del carbone, tra il
2005 e il 2010, sono stati cancellati 150 piani per la realizzazione di
nuove centrali.

La corsa al carbone
in cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto lanciarsi per garantirsi energia
nazionale a basso costo è stata frenata da una forte opposizione e da
un mercato che non sembra troppo convinto della bontà di questo
investimento. Nel 2000 erano 151 le richieste di permesso per nuove centrali,
di queste, nel 2007, solo 40 erano state finalizzate. Altre richieste e
altre cancellazioni sono seguite negli anni successivi e oggi il
database del Sierra club include 244 progetti....
Il movimento anti carbone si appoggia alle grandi associazioni ambientaliste, ma la sua forza sono i gruppi locali dal basso
che, attraverso un rapporto diretto con il territorio e con la
controparte, stanno riuscendo a corrodere le basi dell’industria del
carbone.

Le nuove regole, che impongono costosi sistemi di trattamento e
depurazione, hanno messo in forte difficoltà il settore. Oggi produrre
energia dal carbone non è più economico”.
A
livello locale, l’opposizione al carbone cresce costantemente ed è
riuscita a bloccare diversi progetti di nuove centrali. Vittorie
ottenute con la complicità delle incertezze economiche
legate al settore dei combustibili fossili e della crescita delle
rinnovabili. Vittorie che, nate in ambito locale, hanno un riflesso
globale in quanto mostrano che i mercati internazionali sono in grado di
riorientarsi verso energie pulite. “Secondo le previsioni l'industria
del carbone Usa avrebbe dovuto crescere del 20 per cento negli ultimi
dieci anni e invece abbiamo assistito a una riduzione della stessa
percentuale. E ora anche Cina e India stanno iniziando a mettere in
discussione gli investimenti sul carbone e a cancellare alcuni progetti
di nuove centrali. Se riusciremo a evitare che questi paesi installino
nuova capacità, potremo uscire dal carbone con la sola forza di
auto-regolamentazione del mercato”.
La
transizione verso le rinnovabili è possibile: la disponibilità di fonti
alternative al carbone aumenta costantemente così come cresce la
competitività di queste risorse.........
Ma
si fa tutto nel tentativo di dire addio a un'industria che non può
nemmeno giocarsi la carta dei posti di lavoro: “Ci sono solo cinque
stati in cui il numero dei lavoratori del settore – riprende Ted Nace –
tocca le cinque migliaia. In passato il carbone dava lavoro a 800.000
persone in tutto il paese, ora sono 83.000, mentre l'eolico conta 85.000
addetti. È un'industria da 50 miliardi di dollari: Bill Gates da solo
potrebbe comprarla tutta. Però è un'industria vecchia, che quindi sa
giocare al gioco della politica meglio di quanto non sappia fare la
giovane industria delle rinnovabili”.
In
attesa che gli operatori del clean teach imparino a muoversi tra i
banchi del Congresso, lo scorso luglio l'Epa (Environmental Protection
Agency) ha presentato il Cross-State Air Pollution Rule (Csapr),
una regolamentazione che chiede a 27 stati di ridurre le emissioni
delle proprie centrali elettriche. Dove non arriva il mercato, una mano
dalle istituzioni non guasta.Leggi tutto_____________________________

A Durban Greenpeace presenta i più potenti inquinatori del pianeta, un manipolo di
grandi multinazionali che, oltre a contribuire al cambiamento climatico,
fanno di tutto per bloccare quelle leggi che, in vari Paesi, cercano di
diminuire le emissioni di gas serra.........
Roma, 23 nov. - (Adnkronos) - Greenpeace presenta i nomi dei più potenti inquinatori del pianeta,
a una settimana dalla conferenza su clima di Durban, in Sud Africa. Il
rapporto, presentato oggi, svela come un manipolo di grandi aziende
inquinatrici - tra cui Eskom, Basf, ArcelorMittal BHP Billiton, Shell e
le industrie Koch - e le associazioni di categoria e le corporazioni di
cui fanno parte, stiano condizionando pesantemente i governi e i
negoziati politici riguardo alle leggi per la protezione del clima.
"Se i Governi vogliono scongiurare le conseguenze irreversibili dei
cambiamenti climatici, devono ascoltare i cittadini, prima ancora dei
mercati, e agire nell'interesse della collettività.
A Durban è giunto il
momento di dar voce alla gente, non alle multinazionali
dell'inquinamento" sostiene Salvatore Barbera, responsabile della
campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia.Il rapporto 'Who's holding us back?' aiuta a comprendere come mai le politiche per la salvaguardia del clima hanno un peso sempre minore nell'agenda politica. Greenpeace dimostra come, a causa delle pressioni della lobby degli inquinatori molti Paesi chiave non abbiano adottato misure concrete per la difesa del clima che sono un presupposto essenziale per favorire il successo di un accordo internazionale. Esattamente il contrario della volontà dell'opinione pubblica mondiale che chiede interventi rapidi ed efficaci.

Greenpeace documenta la rete di influenze e condizionamenti con cui alcune grandi aziende muovono come pedine i leader politici e intere nazioni, le une contro le altre, per frenare la lotta ai cambiamenti climatici. "Si tratta di pratiche diffuse a ogni latitudine, anche nel nostro Paese - ha aggiunto Barbera - altrimenti è difficile spiegare la velocità con cui pur di autorizzare la centrale a carbone di Porto Tolle, con emissioni di CO2 fino a quattro volte quelle di Milano, è stata fatta in fretta e furia una legge 'ad centralem' dal governo Berlusconi e una legge analoga dal governo della Regione Veneto, in aperto contrasto con le leggi europee".

"Speriamo che queste tragedie servano da monito per i nostri politici e che l'Italia partecipi alla conferenza di Durban con uno spirito nuovo, in discontinuità rispetto all'atteggiamento di boicottaggio avuto dal precedente governo. Un accordo equo e vincolante per salvare il clima del Pianeta, e tutti noi, è sempre più urgente e la prospettiva che il Protocollo di Kyoto non venga rinnovato è semplicemente agghiacciante". conclude Barbera.

Nessun commento:
Posta un commento