Ilva, tutto è cominciato da una fetta di pecorino...
sicuro dai veleni. Quel cibo contaminato dalla diossina, diede il via - in senso simbolico ma anche pratico - insieme ai rapporti su benzoapirene e Ipa dell’Arpa e a quelli sulle polveri del Tamburi al filone d’inchiesta che, dopo quattro anni di lavoro dei magistrati, è sfociato nei 40 faldoni attualmente in procura col titolo di disastro ambientale doloso e colposo.


A lui, a quanto pare, si riferiva il ministro Clini l’altro giorno quando parlava di membri in procinto di dare le dimissioni dall’incarico, per l’evidente incompatibilità del ruolo. Ticali infatti sarebbe finito nelle intercettazioni svolte dalla Guardia di Finanza, in particolare per contatti con l'avvocato Luigi Pelaggi, legale Ilva ma anche ex capo della segreteria tecnica del ministro Prestigiacomo, ossia colei che ha firmato l’Aia da rifare. Il caso Ilva pullula di protagonisti che spesso hanno un doppio ruolo, presente o passato, e collegamenti reciproci non certo entusiasmanti dal punto di vista morale, fatti salvi i profili penali che sono al vaglio della magistratura.
Il 16 febbraio 2009, dopo il disegno legge della regione Puglia che prevedeva il limite di 0,4 nanogrammi a metro cubo per la diossina entro il 2010 (e 2,5 nanogrammi per il 2009), si tenne a Roma un tavolo un tavolo in cui il governo Berlusconi fece di tutto per indurre Vendola a fare marcia indietro. Il ministro Prestigiacomo – due anni prima di firmare l'Aia – fece l'avvocato dell’Ilva dichiarando «il disegno di legge proposto da Vendola sull'Ilva di Taranto, se approvato dal Consiglio regionale implicherebbe la chiusura dello stabilimento entro 4 mesi». Secondo il direttore dello stabilimento, l'ingegner Luigi Capogrosso, attualmente indagato dai magistrati di Taranto «l’Ilva non può rispettare il limite, né 2,5 nanogrammi a metro cubo, né 0,4 nanogrammi a metro cubo anche in presenza dell'impianto urea».

Da notare che nel 2011, Ilva ha dichiarato dopo una serie di autocontrolli di essere nell'ambito dei nuovi limiti di legge (0,39 nanogrammi). Peccato che però una verifica fatta dall’Arpa a Roma sullo spettometro di massa ad alta risoluzione utilizzato dagli esperti del Cnr, che nell’occasione ha fatto da consulente all'azienda, abbia evidenziato che il macchinario non funzionasse. Circostanza che, a quanto pare, ha attirato l’attenzione dei magistrati per uno stralcio di indagine. Anche la vicenda del benzoapirene, però, ha avuto un ruolo importante nella genesi dell'Aia e delle inchieste dei magistrati. Il 4 giugno 2010 infatti Arpa rende noto che il 98% del benzoapirene che inquina Taranto (il Tamburi) proviene proprio dalla cokeria dell'Ilva.
Di fronte a questa preoccupante evidenza, la Regione prende una decisione incomprensibile: affida a propri tecnici un monitoraggio diagnostico degli impianti, nonostante il più che eloquente rapporto Arpa che è un'agenzia regionale. L'evidente sovrapposizione viene comunicata al direttore Giorgio Assennato a cose fatte, tanto che dalle intercettazioni risulta che il professore si sia recato a Bari ad un incontro col presidente Vendola e i vertici dell'Ilva, e sia stato fatto accomodare fuori dalla porta in attesa con una scelta che il governatore non ha ancora chiarito. Risale a quel periodo peraltro la conversazione telefonica nella quale Girolamo Archinà, ex pr Ilva, dice «bisogna distruggere Assennato». Due mesi dopo, il 13 agosto 2010, il governo ha emanato il decreto 155/2010 che rinvia al 2013 il limite di un nanogrammo per metro cubo, facendo secondo molti e per ovvi motivi un grande favore all’Ilva.
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