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02 maggio 2017

Qualenergia :Da “sporca” a verde, come la finanza impara a gestire i rischi climatici

Tratto da Qualenergia

Da “sporca” a verde, come la finanza impara a gestire i rischi climatici

Sono sempre di più i fondi istituzionali che inseriscono il carbon risk nelle scelte d’investimento, come evidenzia il Global Climate Index 2017. L’Europa è leader in questa speciale classifica, mentre la Cina è tra i Paesi peggiori quanto alla trasparenza del suo portafoglio globale.
Quanto conta il cambiamento climatico nelle decisioni di investimento?
Valutare i rischi finanziari associati al surriscaldamento globale non è un’operazione scontata, anche se sono sempre di più i fondi istituzionali che si preoccupano di come gestire i loro portafogli nell’ambito della transizione energetica verso le fonti rinnovabili, secondo il Global Climate Index 2017 (allegato in basso).
L’indice Global Climate 500 è stato elaborato da Asset Owners Disclosure Project (AODP), l’organizzazione internazionale no-profit che analizza e valuta il comportamento di centinaia di investitori in tutto il mondo, attribuendo punteggi dalla tripla A alla D, mentre il segno X è riservato a quei fondi bollati come “laggards” (ritardatari), perché finora hanno ignorato i possibili impatti dei cambiamenti climatici.
Rilevanza dell’economia verde nelle strategie d’investimento, capacità di gestire i rischi ambientali (carbon risk management), chiarezza e trasparenza delle informazioni: l’indice ha esaminato i 500 maggiori “asset owner” mondiali tra fondi sovrani, fondi pensione e assicurativi, fondazioni, che nel complesso valgono circa 40.000 miliardi di dollari.
Secondo AODP, i rischi climatici meritano un’attenzione speciale, perché riguardano tutti i settori economici e quindi non possono essere diversificati, come si può fare ad esempio con l’incognita-paese, indirizzando il denaro verso nazioni ritenute più sicure dal punto di vista geopolitico.
Ci colleghiamo così al noto problema degli stranded asset (vedi anche QualEnergia.it), definizione che include gli investimenti sempre più incerti sul medio-lungo termine perché riguardano settori in difficoltà se non già in declino, o che molto probabilmente sono destinati a perdere profitti.
Parliamo soprattutto delle infrastrutture dei combustibili tradizionali, come centrali a carbone, miniere, piattaforme petrolifere. Infatti, molte utility stanno progressivamente riducendo gli investimenti fossili, spostandoli verso le tecnologie pulite.
Un esempio recentissimo è il piano industriale 2017-2018 del colosso svedese Vattenfall; altre compagnie, invece, compresa la nostra ENI, sembrano più incerte sul futuro green delle proprie attività (ENI prova a tingersi di verde, ma sulle rinnovabili ci arriva “tardi e male”).
L’indice AODP allora è un termometro della finanza verde globale, perché aiuta a capire chi sta investendo di più e nel modo migliore nelle fonti rinnovabili, realizzando quel vero disimpegno dalle fossili che spesso è più una bandiera di facciata che un obiettivo perseguito con determinazione.
Secondo l’organizzazione no-profit, il 60% dei fondi valutati - 299 istituzioni per complessivi 27.000 miliardi di dollari - si sta impegnando in misura maggiore o minore a ponderare i rischi climatici nella suddivisione dei portafogli azionari e obbligazionari. Intanto sono diminuiti del 18% i fondi laggard, passando da 246 a 201 nel 2016-2017.
Per la prima volta, AODP ha stilato una classifica con i 50 principali gestori privati di fondi (asset manager) e anche in questo caso la tendenza è analoga a quella riscontrata per i soggetti istituzionali: cresce l’attenzione verso il carbon risk finanziario.......
L’Europa, secondo gli esperti dell’organizzazione no-profit, è leader della finanza verde globale, intesa come capacità di gestire il fattore di rischio climatico.
Dei 34 migliori fondi globali con punteggio AAA, 20 sono europei; in Gran Bretagna e Francia, oltre che in Scandinavia, sono pochissimi i fondi laggard, mentre in Germania sono ancora moltissimi (68% del totale), confermando così quelle ambiguità della transizione energetica che abbiamo approfondito in altre occasioni (Germania, le strategie delle utility contro la generazione distribuita).                            Qui l'articolo integrale

04 maggio 2015

Qualenergia:Bolla del carbonio, metà dei fondi pensione non si sta tutelando dal rischio


Tratto da Qualenergia
Bolla del carbonio, metà dei fondi pensione non si sta tutelando dal rischio

Un nuovo report sui 500 più grandi fondi di investimento al mondo mostra che solo una minoranza sta agendo adeguatamente per proteggere il proprio portafoglio dai rischi associati al global warming e alle politiche necessarie a combatterlo. Poco meno della metà, invece, non sta facendo nulla e continua ad investire in fonti fossili.
La vostra pensione dipende dall'ENPAM, da Generali Pensioni o da Arca Previdenza? Sappiate che il fondo di investimento su cui poggia sta facendo poco o niente per tutelare i propri investimenti dai rischi associati al global warming e alle politiche necessarie a combatterlo. Ma probabilmente non vi andrebbe meglio con molti altri: tra i 500 fondi più grandi al mondo si contano sulle dita di due mani quelli che stanno affrontando il problema in maniera adeguata, ad esempio disinvestendo in fretta dagli asset fossili. Ma poco meno della metà non sta agendo per nulla. È questo il preoccupante panorama che emerge dall'ultima edizione del report di Asset Owners Disclosure Project (allegato in basso).
Il progetto va ad esaminare gli investimenti dei 500 più grandi fondi di investimento al mondo, compagnie assicurative, fondi pensione e fondi sovrani, per monitorare un rischio ben noto ai lettori di QualEnergia.it, quello della cosiddetta bolla del carbonio.
bolla
Se vogliamo evitare gli effetti più disastrosi del global warming dobbiamo lasciare sotto terra gran parte delle riserve di carbone, petrolio e gas: per stare sotto ai 2 °C almeno due terzi, secondo la IEA. A rischio, oltre al clima, sono anche i soldi di chi investe: le politiche per il clima e la transizione energetica  impediranno di far fruttare adeguatamente gran parte degli asset in miniere e trivelle. Se si adottassero le politiche necessarie a fermare il riscaldamento globale, mostrano le stime del gruppo bancario HSBC, il valore di gran parte delle aziende delle fossili crollerebbe del 40-60%.
Sta forse proprio qui lo scontro in atto tra produzione di energia convenzionale e centralizzata e fonti rinnovabili-distribuite.
Se non ci si muove già ora per cercare un atterraggio morbido – disinvestendo dagli asset fossili - gli effetti economici potrebbero essere disastrosi visto che nel settore delle fonti fossili hanno investito e continuano ad investire moltissimo Stati, enti locali e grandi fondi pensione: circa il 72% delle riserve mondiali di petrolio, il 73% di quelle di gas e il 61% di quelle di carbone sono possedute o controllate indirettamente dalle nazioni.
Questo rischio è stato denunciato più volte, oltre che da gruppi di investitori attenti al problema (come i 60 che negli Usa di recente hanno chiesto l'intervento della SEC), anche da voci autorevoli del mondo delle finanza come Citigroup, Deutsche Bank, Kepler Chevreux e Moody’s. Ma, come si vede sfogliando il nuovo report, sembra che sia ancora sottovalutato dalla maggior parte dei grandi fondi di investimento.
Secondo AODP, infatti, tra i 500 censiti ben 232 non stanno facendo assolutamente nulla per tutelarsi e continuano ad investire, senza invertire la rotta, in fonti fossili. ..........