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21 aprile 2021

Il gas naturale di origine fossile non è ‘il combustibile di transizione’ ma un nemico del clima

 Tratto da Il Fatto Quotidiano. 

Il gas non è ‘il combustibile di transizione’ ma un nemico del clima


di Emanuele Bompan

Sempre più spesso si sente parlare di come il gas naturale di origine fossile sia “un combustibile di transizione”. Un mantra ripetuto soprattutto dai grandi colossi del mondo oil&gas ma ripreso spesso da tanti politici e media. Nel recente rapporto di ConfindustriaSistema gas naturale — transizione e competitività, realizzato con Nomisma Energia, si ribadisce ancora una volta come il gas naturale “sia la fonte che sta contribuendo di più in questi anni al contenimento della crescita delle emissioni di gas a effetto serra”. È necessario però fare chiarezza, ribadendo due aspetti cruciali, ossia che il gas è comunque un combustibile fossile, e la “transizione” deve durare 1-2 decenni, massimo 3, non deve durare un secolo.

“Da un punto di vista delle emissioni il passaggio dal carbone al gas riduce indubbiamente le emissioni quando si produce elettricità. Non è facile dire quanto vale questo vantaggio perché l’estrazione e la distribuzione del gas naturale comporta emissioni fuggitive di metano, un potente gas serra – spiega Stefano Caserini, membro del comitato scientifico di Italian Climate Network – In ogni caso anche bruciando gas si produce CO2, quindi può essere usato solo in una fase temporanea come riduzione del danno: l’uscita dal gas deve essere già oggi pianificata, con tempi certi e congruenti con gli impegni sul clima già assunti dal nostro Paese”

. Dunque dal punto di vista emissivo il gas è meglio del carbone, ma rimane un combustibile fossile con un importante ruolo climalterante. Se prendiamo gli obiettivi a medio termine dell’Unione Europea, (-55% nel 2030) e a lungo termine, la neutralità climatica al 2050, appare evidente come sia urgente lavorare fin da subito per una strategia di dismissione del gas, graduale e realizzata insieme al settore. Continuare a spingere per la crescita delle centrali a gas e dello sfruttamento di quest’ultimo ad uso industriale e domestico può essere controproducente....

Nuove centrali a gas?

Dunque, appare evidente che investire in nuovi impianti a gas costituisce una direzione opposta ed ostinata alla transizione ecologica e alla decarbonizzazione. Attualmente ci sono piani per la costruzione di nuove centrali a gas in Italia per una capacità complessiva di 14 gigawatt, che potrebbero mettere a rischio gli obiettivi climatici del paese e comportare perdite fino a 11 miliardi di euro in investimenti e perdere l’occasione di ridurre i consumi domestici di energia elettrica. Queste le cifre preoccupanti che fornisce Carbon Tracker Initiative, un think tank finanziario indipendente.

Secondo Catharina Hillenbrand Von Der Neyen, Responsabile Power & Utilities presso Carbon Tracker “l’Italia commetterebbe un errore sostituendo le centrali a carbone con quelle a gas. Le tecnologie a zero emissioni possono assicurare l’affidabilità della rete a un costo più basso. Inoltre insistere sul gas mette in dubbio la leadership dell’Italia nella lotta al cambiamento climatico mentre si prepara a co-ospitare il vertice sul clima COP26 che si terrà quest’anno”.

dati sono ribaditi anche da un altro documento, il report Foot Off the Gas sempre di Carbon Traker che prende in esame gli impegni climatici internazionali e la loro attuazione tramite le relative politiche. Esiste infatti una possibilità concreta di un aumento delle emissioni eccessivo rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione se il gas permanesse troppo a lungo nel mix energetico, invece che iniziare una transizione intelligente del settore. Dunque conclude il report “se il mondo vuole restare sotto la soglia di +1,5 °C rispetto ai livelli preindustriali deve eliminare il gas naturale contemporaneamente al carbone”.

Chi propone impianti a gas sostiene che servono per poter garantire stabilità ad una rete elettrica con grandi quote di energia rinnovabile, la cui produzione è fortemente variabile. “Gli impianti a gas necessari per la transizione devono essere valutati con attenzione, spiegando in modo rigoroso la loro necessità e la loro convenienza strategica rispetto ad alte alternative tecnologiche esistenti per gestire la variabilità della domanda di elettricità”, conclude Caserini.

Infine, è necessario tener conto che anche la finanza sta iniziando a spingere contro il gas. Difficilmente chi investirà in gas potrà avere in futuro buoni rating Esg. E se lo dice la borsa globale forse vale la pena di ascoltare.

10 febbraio 2021

Marco Grondacci : Tutto questo si chiama "azione lobbystica" che con la sicurezza del sistema elettrico non c'entra ....”

Tratto Da Facebook di Marco Grondacci 

Coloro che ci vogliono propinare NUOVE CENTRALI A GAS sui nostri territori 

“dovrebbero sapere che proprio prima Terna e poi il Piano Nazionale Integrato Energia Clima hanno detto e scritto che servono 3.000 MWe per la transizione alla generazione elettrica da sole fonti rinnovabili al 2025.

  Poi però, grazie al Ministero dello Sviluppo Economico e alle sue scelte dietro agli incentivi del capacity market si sono scatenati decine di progetti di centrali a gas : siamo ormai a oltre 15.000 Mwe nuovi oltre all'esistente. 

Tutto questo si chiama "azione lobbystica" che con la sicurezza del sistema elettrico non c'entra un tubo! “

30 dicembre 2020

ISDE ritiene necessaria un’ urgente transizione” dal fossile alle vere fonti rinnovabili, oggi disponibili.

                             Tratto da Isde 

ISDE replica al Presidente di Legambiente: ci si confronti con dati scientifici e non con pregiudizi
Sul fatto che ISDE ritenga necessaria e urgente una “transizione” dal fossile alle vere fonti rinnovabili, oggi disponibili, non ci sono dubbi.

Lo scorso 9 dicembre è apparso sull’allegato del Corriere della Sera, Buone Notizie, un’intervista al Presidente nazionale di Legambiente; nell’intervista, Ciafani, annovera la nostra associazione, Medici per l’ambiente, tra i ” finti ambientalisti” perchè ci opponiamo agli impianti a biometano, agli impianti di riciclo e alle acciaierie decarbonizzate.
Abbiamo ritenuto opportuno inviare alla redazione del quotidiano la nostra posizione, replicando alle accuse infondate.



                                Gentile Direttore,

abbiamo letto sul Suo giornale l’intervista di Elena Comelli al Presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, il quale in chiusura annovera i Medici per l’Ambiente fra i “finti ambientalisti” perché si oppongono agli “impianti a biometano, agli impianti di riciclo e alle acciaierie decarbonizzate”.

Sul fatto che ISDE ritenga necessaria e urgente una “transizione” dal fossile alle vere fonti rinnovabili, oggi disponibili, non ci sono dubbi.

Che questa analisi sia condivisa da autorevoli Enti e scienziati è altrettanto vero, soprattutto se si considera che le emissioni globali di metano stanno crescendo ad un ritmo allarmante, 596 milioni di tonnellate nel 2017 (Global Methane Budget) e che la maggior parte di queste emissioni proviene da attività umane come l’agricoltura, la gestione dei rifiuti e l’industria dei combustibili fossili (Agenzia internazionale per l’Energia).

E’ vero anche che la posizione di Ciafani è condivisa da altre associazioni come quella dei produttori europei di biogas, che sostengono l’alto potenziale del biogas per ridurre le emissioni di metano in agricoltura e promuovere lo sviluppo rurale, portando importanti profitti: i piani delle maggiori multiutility vanno esattamente in questa direzione.

Sul territorio nazionale si stanno moltiplicando le domande di installazione di centrali termo elettriche turbogas
giustificate dalla necessità di creare una riserva di energia che possa far fronte alle richieste di picco che si potrebbero verificare in caso di criticità. Invece di un ponte per il futuro, questo rappresenta un pericoloso ritorno al passato. Stiamo infatti ancora pagando le conseguenze economiche e ambientali di ritardi nel percorso verso forme di energia sostenibile causate dal decreto “sblocca centrali” del 2002, con il quale si disseminò il nostro Paese di centrali a metano in maniera assolutamente indipendente dalla loro effettiva necessità. Oggi si vorrebbero riproporre errori già commessi in passato. Non ci risulta infatti che ci sia stata una valutazione da parte del Ministero competente dell’effettiva necessità di tali centrali, né dell’eventuale quantità, né che sia stata pianificata la loro eventuale ubicazione. Questo appare ancora più grave in considerazione del fatto che alle emissioni delle centrali-termo-elettriche, anche se con evidenza limitata, sono associati eccessi di malattie respiratorie, come l’asma bronchiale, tumori della trachea, dei bronchi e dei polmoni (studio Sentieri) e che le richieste riguardano spesso siti già compromessi dal punto di vista dell’ambiente e della salute.

Quanto agli impianti di digestione anaerobica di biomasse per produrre biometano, è acclarato che questi presentino numerose criticità strutturali, ambientali, agronomiche e sanitarie, e che siano antitetici a quanto avviene normalmente in natura,dove la presenza di ossigeno caratterizza la degradazione della materia organica. Il compostaggio rappresenta il trattamento di elezione per il materiale organico e porta alla formazione di compost, materiale prezioso per restituire fertilità ai suoli contrastando il fenomeno sempre più grave della carenza di materiale organico e del riscaldamento globale, grazie al sequestro di carbonio organico.

È plausibile che la scelta della digestione anaerobica rispetto al compostaggio venga perseguita perché gode di cospicui incentivi, rappresentando un redditizio e sicuro investimento per i gestori. Questi, infatti, ovviamente non considerano i costi esternalizzati negativi, che sono a carico della comunità.

Per quanto attiene le “acciaierie decarbonizzate” (immaginiamo ex ILVA di Taranto), al progetto di mantenerla in attività sostituendo il carbone col metano ISDE ha dedicato uno specifico documento. Se è vero che l’abbandono del carbone come fonte energetica sia un’ovvia necessità, è altrettanto vero che occorre contestualizzare il problema. Diventerebbe così facile capirecome anche la combustione del metano, anch’esso combustibile fossile, inquina e comporta conseguenze ambientali, economiche e sanitarie rilevanti, soprattutto se finalizzato alla produzione di acciaio e all’alimentazione di processi di sinterizzazione. Sarebbe di conseguenza facile capire come purtroppo questa proposta non sia tollerabile in un territorio che da decenni paga costi economici, ambientali e sanitari altissimi e in una regione (la Puglia) da anni in cima alla classifica della produzione di gas clima-alteranti in ambito nazionale.

Secondo l’Energy Watch Group, una rete globale di scienziati e parlamentari senza scopo di lucro, il gas non è da considerarsi idoneo per la transizione energetica. Nel loro rapporto“Natural Gas Makes No Contribution to ClimateProtection” (anno 2019), affermano che «le emissioni aggiuntive di metano compensano qualsiasi risparmio di monossido di carbonio».

È stato calcolato da autorevoli ricercatori che il passaggio dal carbone al metano garantisce una modesta riduzione della produzione di gas clima-alteranti (circa 17% entro 40 anni). Per contro, emissioni fuggitive pari al solo 8% generano nello stesso periodo solo il 20% in meno delle alterazioni climatiche prodotte dall’utilizzo di carbone in un secolo di operatività.

A proposito di “energie rinnovabili”, ricordiamo che il fotovoltaico converte la luce del Sole in energia elettrica con un’efficienza di circa il 20%, quasi cento volte maggiore dell’efficienza della fotosintesi clorofilliana. Fotovoltaico ed eolico oggi sono le due tecnologie che forniscono energia elettrica ai costi più bassi, anche se accoppiate a sistemi di accumulo (Vincenzo Balzani).

Ci sono molteplici studi che indicano le possibilità tecnologiche di fornire energia a basso costo e abbondante per tutta l’Europa ricorrendo alle risorse rinnovabili
. Sappiamo come fare e ci sono risorse sufficienti per farlo, a patto di accettare che non si può continuare a far crescere esponenzialmente i consumi per sempre (Ugo Bardi).

Ci sembra che la crisi pandemica da Covid-19 debba essere letta con questa lente, che è l’unica che può portare a scelte di ripartenza virtuosa.

Per quanto riguarda poi gli “impianti di riciclo”, ISDE ritiene utili gli impianti preposti al reale recupero della materia, in coerenza con la gerarchia di trattamento dei rifiuti suggerita dalla stessa Commissione Europea.

Su questi argomenti ISDE ha contribuito con argomenti di merito in varie occasioni e con documenti di approfondimento scientifico (WWW.ISDE.IT)......

Riteniamo infatti più che mai urgente discutere, senza pregiudizi e con spirito collaborativo, su ciò che è davvero sostenibile e rispettoso dell’ecosistema e della salute umana e animale in accordo con la visione olistica dell’approccio One-Health, riconosciuto dalla Commissione Europea e dal Ministero della Salute italiano. La difficile ma urgente transizione verso un’economia compatibile con la natura ha bisogno di scelte basate sulla valutazione dei benefici netti per la salute e l’ambiente validati dalla scienza indipendente. È anche auspicabile il massimo di coesione tra soggetti a cui i valori sopra enunciati stanno a cuore.

Come indicato dall’IPCC non abbiamo più molto tempo a disposizione per passaggi intermedi che non vadano nella direzione di una drastica riduzione delle emissioni da subito se vogliamo evitare che i drammatici effetti della crisi del clima già in atto diventino irreversibili.

07 novembre 2020

World Energy Outlook 2020 sulla transizione al 2030 tanto gas....

 Tratto da Note  di Marco Grondacci

World Energy Outlook 2020 sulla transizione al 2030 tanto gas ma anche biometano e un ritorno del nucleare

Pubblicato dalla Agenzia Internazionale dell’Energia il rapporto World Energy Outlook conferma il calo della domanda del carbone e del petrolio, il maggior uso del gas nella transizione ma con numerose contraddizioni da qui al 2030 e oltre, con un ruolo di ritorno anche per il nucleare e il biometano come compensatore dei limiti del metano fossile. Una analisi da fonte autorevole e realistica ma troppo sbilanciata sui soli aspetti energetici e di geopolitica scontando un non adeguato confronto sugli impatti reali delle diverse fonti citate nel Rapporto. 

Trovate il testo completo del World Energy Outlook 2020 QUI

Vediamo i passaggi più rilevanti di questo Outlook: 

17 ottobre 2017

Qualenergia : Salute, abbandonare il carbone fa bene come smettere di fumare e bere alcol

Tratto da Qualenergia 

Salute, abbandonare il carbone fa bene come smettere di fumare e bere alcol

In un recente intervento, Jonathan Patz direttore del Global Health Institute dell’università di Wisconsin-Madison, spiega perché conviene smettere di bruciare combustibili fossili: la cattiva qualità dell’aria provoca milioni di morti premature ogni anno e alti costi sanitari.


L’utilizzo di combustibili fossili, con l’associata responsabilità umana dei cambiamenti climatici, di solito finisce per essere interpretato in qualche scenario catastrofico di temperature in costante aumento, siccità, ondate di calore, tifoni, scioglimenti di ghiacci e quant’altro sia incluso nel dibattito scientifico del surriscaldamento globale.
Senza sminuire i rischi presenti e futuri del global warming, si può affrontare il problema anche da una prospettiva diversa: come modificare il proprio stile di vita? Come trasformare la società promuovendo al contempo la salute, il benessere e la tutela ambientale?
Queste sono le premesse di un recente intervento di Jonathan Patz, direttore del Global Health Institute presso l’università di Wisconsin-Madison, alla conferenza annuale dell’International Society for Environmental Epidemiology (ISEE) che si è tenuta a Sydney.
Premesso che è sempre molto complicato stimare con precisione le conseguenze negative delle fonti fossili, come le morti premature, l’incidenza di determinate malattie, gli extra costi sociali e così via (articolo di QualEnergia.it sulle esternalità negative), Patz cita i dati dell’organizzazione mondiale della sanità, secondo cui le morti attribuibili all’inquinamento atmosferico sono circa 7 milioni l’anno in tutto il mondo.
Il punto, evidenzia l’autore, è che il 78% dell’incremento della CO2 rilasciata nell’atmosfera dal 1970 al 2010 si deve all’impiego crescente di carbone, petrolio e gas nei vari settori economici; tra le altre sostanze molto pericolose per la salute umana, emesse dalle fonti “sporche”, ricorda Patz, c’è il particolato fine.
Con politiche globali per diminuire i gas serra e migliorare la qualità dell’aria, sostiene Patz, si potrebbero salvare 1-4 milioni di vite umane l’anno entro la metà del nostro secolo.
Tra l’altro, prosegue il professore dell’università americana, provando a monetizzare costi e benefici della transizione low-carbon, si otterrebbe un guadagno netto, se è vero, come afferma l’Environmental Protection Agency (EPA) americana, che ogni dollaro investito in misure per abbattere l’inquinamento atmosferico “restituisce” 30 volte tanto, considerando i risparmi sulle spese sanitarie federali.
Diabete, obesità e malattie cardiovascolari, aggiunge Patz, si diffondono in tutto il mondo a causa di errati stili di vita: cattiva alimentazione, scarsa attività fisica, dipendenza da un’economia globale a trazione fossile, tra cui l’uso preponderante delle automobili private nelle città.
Il cosiddetto action-travel, letteralmente il viaggio attivo a piedi o in bicicletta, è una straordinaria opportunità non solo per ridurre il consumo di carburanti che avvelenano l’aria delle metropoli, ma anche per ottimizzare i benefici per la nostra salute.
In definitiva, sostiene l’autore, smettere di bruciare combustibili fossili è un po’ come smettere di fumare, una scelta difficile e “costosa” da portare a termine, un cambiamento profondo e inizialmente anche traumatico, perché modifica le nostre abitudini consolidate, che quindi deve essere affrontato con il supporto della società nel suo complesso.
Rimanendo in campo energetico: con incentivi alle rinnovabili, tasse sulla CO2, eliminazione graduale delle risorse inquinanti, investimenti in trasporti puliti e così via.

26 maggio 2017

BlackRock: il carbone è morto, e' «un gioco d’azzardo». Ma Trump non lo sa

Tratto da Greenreport

BlackRock: il carbone è morto. Ma Trump non lo sa

Alla Trump Tower di New York iniziativa delle imprese che disinvestono dai combustibili fossili
[26 maggio 2017]
Mentre le multinazionali del petrolio e del carbone contano su Trump per andare avanti, le istituzioni finanziarie e le imprese stanno svolgendo un ruolo essenziale nella transizione responsabile dai combustibili fossili a una nuova economia sostenibile per tutti.
Al G7 in corso a Taormina probabilmente Trump sta tentando di far ingoiare agli altri big dei Paesi industrializzati la pillola amara del rilancio dell’estrazione del carbone negli Usa, con una politica che vanificherebbe gli impegni Usa sul cambiamento climatico.
Ad appoggiarlo – tiepidamente – ci sarà il premier giapponese, mentre al tavolo di  Taormina non siede l’unico vero alleato di Trump in questa battaglia: il governo di centrodestra australiano, che continua ad autorizzare gigantesche miniere e porti carboniferi.
Ma è proprio dall’Australia che vengono brutte notizie per Trump e i suoi alleati ecoscettici. Jim Barry, responsabile  del mega- gruppo di investimenti  BlackRock Infrastructure, ha detto a  The Australian Financial Review che «L’Australia nega la gravità continuando a incoraggiare gli investimenti nel carbone Poiché l’energia rinnovabile è ora in competizione “testa a testa” per i costi con il carbone». La sede centrale della BlackRock  è a Dublino, in Irlanda, e Barry dice che è abbastanza divertente guardare da così lontano l’Australia negare la gravità della sua politica carbonifera: 
«Il carbone è morto. Questo non vuol dire che tutti gli impianti di carbone chiuderanno domani» ma pensare al carbone come a un investimento che vada oltre i 10 anni è molto rischioso, «un gioco d’azzardo».
Barry, che prevede di iniziare a investire in progetti australiani per l’energia rinnovabile, ammette che per i politci sarebbe stato difficile non sfruttare il carbone quando era disponibile, ma non pensa che non ci sia un «potenziale a lungo termine», nemmeno in un mega-impianto chimico – miniera di carbone proposto dalla multinazionale indiana Adani e la BlackRock si è ritirata dall’affare.
Ormai le energie rinnovabili non sono più costose e possono anche rinunciare agli incentivi: «La cosa che ha cambiato fondamentalmente l’intero quadro – ha detto Barry –  è che le fonti rinnovabili sono diventate così a buon mercato». Il pregiudizio del governo australiano verso le rinnovabili significa che il Paese si autoesclude dallo sviluppo di  progetti di energia rinnovabile su larga scala, compresi quelli delle batterie per lo stoccaggio.
Intanto, mentre Trump e i conservatori australiani sono fermi all’età del carbone, in poco più di 10 anni gli investimenti nelle rinnovabili sono passati da 20 trilioni di dollari a 300 trilioni di dollari.
BlackRock Usa ha un portafoglio di investimenti di più di 5 trilioni di dollari (sostiene di essere gruppo di investimento più grande del mondo) ed è attivamente alla ricerca di investimenti nelle energie rinnovabili australiane da aggiungere al suo nuovo global renewable power fund, che dovrebbe arrivare a circa 1,7 trilioni di dollari, il 10% di quali da spendere in Australia.
Il gruppo di investimento preferisce investire in progetti di energia rinnovabile nuovissimi, nei primi 6 mesi di funzionamento di un progetto, perché pensa di fare più soldi che investendo in asset maturi. «La costruzione di progetti rinnovabili in genere è “semplice” e non è complicata o rischioso come Costruzione di progetti di trasporto», spiega ancora Reid.
Ieri, mentre Trump era in Francia dopo il poco cordiale incontro col Papa ambientalista, il movimento Fossil free . Divest from fossil fuel si è dato appuntamento proprio alla Trump Tower a New York, dove Mary Cleaver, fondatrice della The Claver Society e di Green Table a Chelsea Market,  Matt Patsky, CEO di Trillium Asset Management, e Ivan Frishberg, vicepresidente della Amalgamated Bank  hanno spiegato perché è giusto disinvestire dai combustibili fossili, ad iniziare dal carbone.
Mentre le multinazionali del petrolio e del carbone contano su Trump per andare avanti, le istituzioni finanziarie e le imprese stanno svolgendo un ruolo essenziale nella transizione responsabile dai combustibili fossili a una nuova economia sostenibile per tutti. Il businesses sta scommettendo sull’azione climatica e, anche a New York, invita i fondi pensione ad unirsi al cammino di chi vuole disinvestire dal passato e investire nel futuro.

27 maggio 2016

Silvestrini : Multinazionali dell'energia, venti di transizione e di reazione ai cambiamenti

Multinazionali dell'energia, venti di transizione e di reazione ai cambiamenti

Tratto da Qualenergia
In passato in presenza di alti prezzi degli idrocarburi i guadagni delle multinazionali dei fossili aumentavano e, contemporaneamente, anche gli investimenti sulle energie rinnovabili risultavano più interessanti.
Oggi, viceversa, il trend ribassista di carbone, petrolio e metano colpisce con forza le multinazionali del settore, ma non impedisce la rapida crescita delle rinnovabili. E, considerata la riduzione dei prezzi di solare ed eolico prevista nel medio e lungo periodo, l’avanzata di queste tecnologie non potrà essere più fermata.
È interessante capire come questa tendenza influisca sulle strategie delle aziende elettriche e in quelle petrolifere. I loro bilanci verranno, infatti, messi sempre più in difficoltà dalla rapida crescita delle soluzioni alternative. Oggi la diffusione delle rinnovabili determina un calo del prezzo dell’elettricità, con notevoli impatti sulle quotazioni delle utilities; domani l’esplosione di eolico e solare da un lato e della mobilità elettrica dall’altro incideranno sulla domanda di gas e petrolio contribuendo alla riduzione del prezzo dei fossili.
Ma come reagiscono le compagnie energetiche al drastico cambio del contesto in cui hanno storicamente operato? Nel caso di alcune utilities elettriche, sono proprio le rinnovabili a risanare bilanci a fronte delle difficoltà della generazione tradizionale. Emblematico il caso di Enel che ha totalmente cambiato il proprio modello di business, tanto da incorporare Enel Green Power, diventata ormai motore del cambiamento. Altre utilities sono a metà del guado e qualcuna, a livello internazionale, sparirà.
Un’analoga trasformazione sta avvenendo nel mondo dei fossili. In qualche caso il salto del fossato è già completamente avvenuto, come dimostra la storia di ERG che ha smobilitato le proprie raffinerie per lanciarsi nell’eolico.
Guardando alle società più importanti, la situazione è variegata, ma si intravvedono segnali di una diversificazione delle attività. Questo cambio di marcia è più evidente nella francese Total da tempo impegnata nel solare, o nella norvegese Statoil lanciatasi nell’eolico off-shore galleggiante. Come è noto, e come era prevedibile, anche Eni ha timidamente annunciato programmi per 1 miliardo di euro nel fotovoltaico. La stessa Arabia Saudita ha avviato un cambio di strategia.
All’altro estremo si situano le big statunitensi. Proprio in questi giorni si tiene l’assemblea degli azionisti della Exxon e il suo amministratore Rex Tillerson, a fronte della crescente pressione di alcuni investitori che chiedevano un cambio di approccio visti i rischi climatici, ha candidamente affermato che la riduzione delle produzione di petrolio ”non è accettabile per l’umanità”. Malgrado questo, il 38% degli azionisti hanno votato una mozione per richiedere una rendicontazione annuale sull’impatto delle politiche climatiche dopo Parigi sui profitti dell’azienda. Anche il 41% degli azionisti della Chevron hanno sollecitato uno “stress test climatico.
La transizione non sarà quindi così banale, ma lascerà sul campo morti e feriti. Ne è un esempio il caso delle grandi società del carbone che non hanno avuto il tempo di diversificare in un contesto di calo della domanda e dei prezzi e sono fallite.
È importante focalizzare l’attenzione sui produttori di combustibili fossili perché è evidente che il processo di decarbonizzazione in atto, comportando la ridiscussione della loro stessa esistenza, alimenterà inevitabilmente azioni contro le politiche climatiche.
È vero che solo la capacità di definire rapidamente strategie alternative determinerà la possibilità di una loro sopravvivenza, come sottolinea un numero crescente di autorevoli osservatori. Ma non dobbiamo aspettarci che questa prospettiva venga accettata pacificamente. Visti gli enormi interessi in gioco, è chiaro che verrà esercitata un’enorme pressione nei confronti dei governi per evitare l’adozione di incisive politiche di contenimento delle emissioni.
La Exxon deve difendersi in questi mesi nei tribunali dall’accusa di avere finanziato gruppi negazionisti e di avere nascosto informazioni sui rischi climatici che pure i suoi stessi scienziati avevano evidenziato. Possiamo immaginare il ruolo che queste compagnie potranno esercitare nei prossimi delicati e decisivi anni. E l’elezione del nuovo presidente Usa è alle porte …