tratto da notizie geopolitiche
UE. DOVE LE AZIENDE POSSONO PAGARE PER CONTINUARE A INQUINARE
Tutti i media hanno dedicato ampi spazi agli incontri di Parigi (COP21) e di Marrakech (COP22) dove si è parlato di ridurre la quantità di emissioni, gradualmente e sulla base ad una serie di parametri. Per l’Ue questa riduzione dei livelli di anidride carbonica significherà minori emissioni per almeno il 40%, entro il 2030.
Poco dopo, ma di questo pochi hanno parlato, il 28 febbraio il Consiglio Ue dei ministri dell’Ambiente ha approvato la riforma del regolamento per gli “scambi di emissioni”. Di “scambio di quote di emissione” si era parlato molti anni fa, nel 2003, poco dopo la stipula del protocollo di Kyoto, ed allora l’Unione europea aveva introdotto l’European Union Emissions Trading Scheme – EU ETS: con la Direttiva 2003/87/CE veniva attivato il meccanismo di “cap&trade” per gli impianti industriali, per il settore della produzione di energia elettrica e termica, per gli operatori aerei e molto altro. In poche parole, nei paesi che avevano promesso di limitare le proprie emissioni di gas serra o di CO2, alcune industrie venivano autorizzate a continuare ad inquinare ben al di sopra di questi limiti; a patto però che altre industrie o altri paesi si impegnassero di rimanere molto al di sotto dei limiti loro imposti. La misura (di cui anche allora si parlò molto poco) interessava migliaia di imprese: 11mila gestori di impianti termoelettrici e industriali, imprese manifatturiere (attività energetiche, produzione e trasformazione dei metalli, cemento, ceramica e laterizi, vetro, carta) e gli operatori aerei. A loro dal 2013 si aggiunsero gli impianti di produzione di alluminio, calce viva, acido nitrico, acido adipico, idrogeno, carbonato e bicarbonato di sodio e gli impianti per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio di CO2. Tutti avrebbero potuto continuare ad inquinare l’ambiente e avvelenare vasti territori in deroga alle limitazioni imposte dagli accordi internazionali sulle emissioni sottoscritti dai vari paesi del mondo in questi anni.
Poco dopo, ma di questo pochi hanno parlato, il 28 febbraio il Consiglio Ue dei ministri dell’Ambiente ha approvato la riforma del regolamento per gli “scambi di emissioni”. Di “scambio di quote di emissione” si era parlato molti anni fa, nel 2003, poco dopo la stipula del protocollo di Kyoto, ed allora l’Unione europea aveva introdotto l’European Union Emissions Trading Scheme – EU ETS: con la Direttiva 2003/87/CE veniva attivato il meccanismo di “cap&trade” per gli impianti industriali, per il settore della produzione di energia elettrica e termica, per gli operatori aerei e molto altro. In poche parole, nei paesi che avevano promesso di limitare le proprie emissioni di gas serra o di CO2, alcune industrie venivano autorizzate a continuare ad inquinare ben al di sopra di questi limiti; a patto però che altre industrie o altri paesi si impegnassero di rimanere molto al di sotto dei limiti loro imposti. La misura (di cui anche allora si parlò molto poco) interessava migliaia di imprese: 11mila gestori di impianti termoelettrici e industriali, imprese manifatturiere (attività energetiche, produzione e trasformazione dei metalli, cemento, ceramica e laterizi, vetro, carta) e gli operatori aerei. A loro dal 2013 si aggiunsero gli impianti di produzione di alluminio, calce viva, acido nitrico, acido adipico, idrogeno, carbonato e bicarbonato di sodio e gli impianti per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio di CO2. Tutti avrebbero potuto continuare ad inquinare l’ambiente e avvelenare vasti territori in deroga alle limitazioni imposte dagli accordi internazionali sulle emissioni sottoscritti dai vari paesi del mondo in questi anni.
In Italia la misura riguardava oltre 1.300 gli impianti, di cui il 71% circa nel settore manifatturiero. A questi si devono aggiungere gli ospedali e i “piccoli emettitori”, quelli con emissioni inferiori a 25mila tonnellate di CO2 equivalente e, nel caso di impianti di combustione, con potenza termica nominale inferiore a 35 MW.
Il “Sistema europeo di scambio di quote di emissione” prevede che le industrie ricevano una parte di “quote” di emissioni a titolo gratuito definite in base a parametri di riferimento (benchmark). Le eccedenze non sono vietate o sanzionate: sono comunque ammesse a patto che vengano acquistate da altre industrie o paesi. I tetti massimi (“cap”) delle emissioni consentite a tutti i soggetti vincolati dal sistema, possono essere acquistati o venduti sul mercato (“trade”) dei diritti di emissione di CO2 (“quote”) entro un limite stabilito. Ogni impianto autorizzato deve monitorare annualmente le proprie emissioni e compensarle con quote di emissione europee (European Union Allowances, EUA e European Union Aviation Allowances, EUA-A) che possono essere comprate e vendute sul mercato.
Da ciò è nato un vero e proprio mercato secondario del carbonio dove le industrie possono comprare e vendere queste quote che sono contabilizzate nel Registro unico dell’Unione europea, una banca dati in formato elettronico che tiene traccia di tutti i passaggi di proprietà delle quote e consente agli operatori di compensare, annualmente, le proprie emissioni restituendo le quote agli Stati membri.
In questo modo, in pratica, è stato consentito alle imprese più inquinanti di continuare a farlo. A patto di pagare!
A ottobre 2014 il Consiglio europeo ha approvato il Rapporto sull’andamento delle aste di quote europee di emissione III trimestre 2014 per il rispetto degli impegni sulla riduzione delle emissioni entro il 2030, ma la situazione non è cambiata: a luglio 2015 infatti la Commissione europea ha presentato una proposta di revisione della Direttiva ETS nell’ambito del pacchetto di misure per l’attuazione della proposta Junker “Unione dell’Energia” (Rapporto sull’andamento delle aste di quote europee di emissione II trimestre 2015).
L’unica cosa che è cambiata è stata la definizione dei settori coperti dall’EU ETS che dovranno ridurre le loro emissioni non più del 40% rispetto al 2005, ma del 43%: a partire dal 2021, le quote di emissione in vendita diminuiranno con una progressione maggiore rispetto a prima (del 2,2% annuo invece che dell’1,74%).
La giustificazione addotta è che, senza il ricorso a questo stratagemma, molte industrie sarebbero costrette a delocalizzarsi a causa dei costi del carbonio (carbon leakage).
Una motivazione che non cambia il fatto che questo modus operandi è assolutamente inaccettabile.
Prima di tutto sotto il profilo ambientale e sociale, poiché in questo modo si consente a molti dei maggiori responsabili dell’inquinamento di un’area di continuare a farlo a patto di pagare un’altra zona dell’Unione affinché rinunci a industrializzarsi. Ma anche dal punto di vista geopolitico: il fatto che questi “scambi” di quote di emissioni di CO2 è contabilizzate nel Registro unico dell’Unione europea, rende l’Ue (che gestisce questa banca dati informatica) responsabile dello sforamento dei livelli di inquinamento in molte aree e delle conseguenze per la salute dei cittadini che ne derivano.
Concedere alle imprese dell’Ue di continuare ad inquinare però non era sufficiente: così, con l’accordo siglato nei giorni scorsi, è stata prevista anche una revisione del sistema di assegnazione gratuita basata sui settori che presentano il maggiore rischio di trasferimento della produzione al di fuori dell’Ue (circa 50 settori), un accantonamento di un numero significativo di quote gratuite regole più flessibili e, soprattutto, un aggiornamento dei 52 parametri di riferimento utilizzati per misurare la prestazione in materia di emissioni. Tutte misure per favorire i principali responsabili delle emissioni di CO2.
A pagare ovviamente saranno i cittadini europei e non solo in termini di salute: tra il 2021 e il 2030 verranno “regalate” alle imprese circa 6,3 miliardi di quote, per un valore pari a 160 miliardi di euro. A questi aiuti per continuare ad inquinare si aggiunge l’istituzione di vari meccanismi di sostegno tra i quali due nuovi fondi: il fondo per l’innovazione, cioè a favore di tecnologie innovative e innovazioni industriali pionieristiche, e il fondo per la modernizzazione, per la modernizzazione del settore energetico e dei sistemi energetici rivolto ai 10 Stati membri a reddito più basso.
Tutti soldi che gli europei dovranno sborsare per consentire alle grandi industrie di continuare a inquinare come hanno fatto fino ad ora.
Ma di questo stranamente, nessuno ha parlato.
Il “Sistema europeo di scambio di quote di emissione” prevede che le industrie ricevano una parte di “quote” di emissioni a titolo gratuito definite in base a parametri di riferimento (benchmark). Le eccedenze non sono vietate o sanzionate: sono comunque ammesse a patto che vengano acquistate da altre industrie o paesi. I tetti massimi (“cap”) delle emissioni consentite a tutti i soggetti vincolati dal sistema, possono essere acquistati o venduti sul mercato (“trade”) dei diritti di emissione di CO2 (“quote”) entro un limite stabilito. Ogni impianto autorizzato deve monitorare annualmente le proprie emissioni e compensarle con quote di emissione europee (European Union Allowances, EUA e European Union Aviation Allowances, EUA-A) che possono essere comprate e vendute sul mercato.
Da ciò è nato un vero e proprio mercato secondario del carbonio dove le industrie possono comprare e vendere queste quote che sono contabilizzate nel Registro unico dell’Unione europea, una banca dati in formato elettronico che tiene traccia di tutti i passaggi di proprietà delle quote e consente agli operatori di compensare, annualmente, le proprie emissioni restituendo le quote agli Stati membri.
In questo modo, in pratica, è stato consentito alle imprese più inquinanti di continuare a farlo. A patto di pagare!
A ottobre 2014 il Consiglio europeo ha approvato il Rapporto sull’andamento delle aste di quote europee di emissione III trimestre 2014 per il rispetto degli impegni sulla riduzione delle emissioni entro il 2030, ma la situazione non è cambiata: a luglio 2015 infatti la Commissione europea ha presentato una proposta di revisione della Direttiva ETS nell’ambito del pacchetto di misure per l’attuazione della proposta Junker “Unione dell’Energia” (Rapporto sull’andamento delle aste di quote europee di emissione II trimestre 2015).
L’unica cosa che è cambiata è stata la definizione dei settori coperti dall’EU ETS che dovranno ridurre le loro emissioni non più del 40% rispetto al 2005, ma del 43%: a partire dal 2021, le quote di emissione in vendita diminuiranno con una progressione maggiore rispetto a prima (del 2,2% annuo invece che dell’1,74%).
La giustificazione addotta è che, senza il ricorso a questo stratagemma, molte industrie sarebbero costrette a delocalizzarsi a causa dei costi del carbonio (carbon leakage).
Una motivazione che non cambia il fatto che questo modus operandi è assolutamente inaccettabile.
Prima di tutto sotto il profilo ambientale e sociale, poiché in questo modo si consente a molti dei maggiori responsabili dell’inquinamento di un’area di continuare a farlo a patto di pagare un’altra zona dell’Unione affinché rinunci a industrializzarsi. Ma anche dal punto di vista geopolitico: il fatto che questi “scambi” di quote di emissioni di CO2 è contabilizzate nel Registro unico dell’Unione europea, rende l’Ue (che gestisce questa banca dati informatica) responsabile dello sforamento dei livelli di inquinamento in molte aree e delle conseguenze per la salute dei cittadini che ne derivano.
Concedere alle imprese dell’Ue di continuare ad inquinare però non era sufficiente: così, con l’accordo siglato nei giorni scorsi, è stata prevista anche una revisione del sistema di assegnazione gratuita basata sui settori che presentano il maggiore rischio di trasferimento della produzione al di fuori dell’Ue (circa 50 settori), un accantonamento di un numero significativo di quote gratuite regole più flessibili e, soprattutto, un aggiornamento dei 52 parametri di riferimento utilizzati per misurare la prestazione in materia di emissioni. Tutte misure per favorire i principali responsabili delle emissioni di CO2.
A pagare ovviamente saranno i cittadini europei e non solo in termini di salute: tra il 2021 e il 2030 verranno “regalate” alle imprese circa 6,3 miliardi di quote, per un valore pari a 160 miliardi di euro. A questi aiuti per continuare ad inquinare si aggiunge l’istituzione di vari meccanismi di sostegno tra i quali due nuovi fondi: il fondo per l’innovazione, cioè a favore di tecnologie innovative e innovazioni industriali pionieristiche, e il fondo per la modernizzazione, per la modernizzazione del settore energetico e dei sistemi energetici rivolto ai 10 Stati membri a reddito più basso.
Tutti soldi che gli europei dovranno sborsare per consentire alle grandi industrie di continuare a inquinare come hanno fatto fino ad ora.
Ma di questo stranamente, nessuno ha parlato.
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