Già la sentenza di primo grado aveva riconosciuto come malattia professionale la patologia in oggetto e questa ulteriore sentenza,
 che conferma quella di primo grado e rigetta il ricorso in appello avanzato dall’Inail, rende indubbiamente giustizia di tante
 reiterate prese di posizioni negazioniste sull’argomento.
La sentenza merita di essere letta per intero, in quanto è esemplare 
sia per la coerenza delle argomentazioni che per la  testimonianza dell’accuratissimo lavoro fatto dai Consulenti 
Tecnici d’Ufficio (Ctu). La prima impressione che ho avuto nel leggerla
 è stata da un lato di sincera gratitudine verso i magistrati che
 l’hanno emessa, ma dall’altro ho provato anche un senso di profondo scoramento nel dover constatare che il bene primario 
della salute è di fatto, ancora una volta, demandato alla 
magistratura, in quanto le istituzioni a ciò preposte si rivelano, 
come in questo caso, pesantemente carenti.
Al punto 8 della Sentenza di Torino, ad esempio, vengono riportate 
le argomentazioni dei Ctu in risposta ai consulenti di parte dell’Inail
 che citavano, a loro supporto, il Rapporto Istisan dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) sul quale già mi ero espressa,riportando 
al riguardo la posizione dell’Isde. Vedere che proprio le critiche al Rapporto Istisan – a firma del Presidente del Comitato Scientifico dell’Isde, dott. Agostino Di Ciaula – vengono riportate dai magistrati torinesi è un indubbio riconoscimento della serietà della nostra associazione e del nostro impegno a difesa della salute pubblica.
Nello specifico viene citata la critica mossa agli autori del Rapporto Istisan, per avere considerato su 7 metanalisi – di cui 4 
evidenziano rischi e 3 no – solo queste ultime, pur se viziate da
 pesanti errori metodologici, quali ad esempio avere considerato esposizioni molto limitate (2 anni e 8 mesi). E’ ovvio che un breve periodo di neanche tre anni è del tutto insufficiente per vedere svilupparsi un tumore, patologia che richiede – come emerge 
dagli studi adeguatamente condotti – esposizioni superiori a 
10 anni o a 1.640 ore d’uso del cellulare. Continua qui